È possibile individuare due principali vie che hanno condotto all’emanazione della normativa scolastica e che, quindi, hanno nel tempo segnato la Storia della Scuola italiana: se in alcuni momenti storici sono state raccolte le riflessioni pedagogico-didattiche, le sperimentazioni, le pratiche didattiche e le considerazioni dei genitori, in altri sono state esclusivamente il frutto degli orientamenti politici dei diversi ministri che si sono susseguiti.
In entrambi i casi i dispositivi hanno determinato cambiamenti, spesso così profondi da potersi definire vere e proprie trasformazioni. Ciò vale anche per le diverse scelte valutative strettamente correlate a modelli didattico-educativi.
Nel ripercorrere alcune tappe normative che hanno interessato la valutazione nella scuola primaria, è inevitabile partire dalla L.517/1977 che ha fatto da spartiacque tra una scuola trasmissivo-selettiva e una scuola formativo-inclusiva, ha abolito i voti e la pagella formalizzando la distinzione pedagogica tra valutazione selettiva e valutazione educativo/formativa il cui carattere realizza un principio pedagogico fondamentale: la valutazione è parte del processo di insegnamento-apprendimento, non va concepita come un fine (come accade con il voto), ma come un mezzo per rilevare l’efficacia delle metodologie e strategie didattiche messe in atto al fine di integrarle, cambiarle o modificarle affinché ognuno/a sia messo/a nelle condizione di apprendere. La legge ha istituito la scheda personale dell’alunno che descriveva la partecipazione dell’alunno/a alla vita della scuola e registrava osservazioni sistematiche sul suo processo di apprendimento e sui livelli di maturazione raggiunti.
Questo è uno dei casi in cui i legislatori hanno risposto alle sollecitazioni provenienti dalle riflessioni pedagogico-didattiche, in quegli anni molto vive, di docenti, dell’associazionismo, del mondo accademico e dei sindacati di settore.
L’O.M. 236/1990 ha sancito la fine di questa esperienza pedagogica con l’introduzione dei livelli A,B,C,D,E di stampo anglosassone, che nulla avevano a che fare con la storia e la pedagogia del nostro paese e di cui era palese una correlazione con i voti.
Analogo parallelismo si è realizzato successivamente la c.m. 491/1996 che ha predisposto la rilevazione degli apprendimenti attraverso un giudizio sintetico: ottimo, distinto, buono, sufficiente, insufficiente.
Il D.L. 137/2008 ha poi reintrodotto la valutazione espressa in decimi e il voto in condotta.
Dal 1990 il processo legislativo terminato con la reintroduzione del voto nel 2008 non è stato sostenuto da alcuna letteratura pedagogica, ma frutto delle politiche governative.
Per lunghi 18 anni, docenti e genitori hanno ripreso contatto con ciò di cui avevano esperito quando loro stessi erano sui banchi di scuola. Il voto, facile da comprendere, veloce da mettere, premio o castigo, ha allontanato la valutazione dal suo carattere formativo ed è ritornato ad essere lo strumento caratterizzante la scuola selettiva, usato per stimolare a stare attenti, a studiare, a essere competitivi e bravi.
Con l’O.M. 172/2020,la scuola primaria è stata investita da una nuova riforma sulla valutazione, grazie soprattutto alla spinta di docenti della scuola e dell’università che sostenevano l’inadeguatezza, i limiti e i danni della valutazione in decimi rispetto a un orientamento pedagogico in prospettiva democratica, ma anche a quanto contenuto nelle Indicazioni nazionali per il curricolo. L’Ordinanza ha effettuato un passaggio significativo: non un unico voto per ogni disciplina, ma descrittori del livello di acquisizione per ogni obiettivo di apprendimento che diviene centrale poiché finalizzato alla formulazione di un giudizio descrittivo che eviti i cosiddetti bias valutativi, cioè tutte quelle distorsioni indotte dai pregiudizi di chi valuta.
Resistenze all’abbandono del voto (facendolo di fatto equivalere al livello) e a una necessaria riflessione sulle prassi educativo-didattiche hanno determinato difficoltà nell’applicazione della riforma. Ma tre anni sono davvero pochi per liberarsi da concezioni valutative meritocratiche, considerata anche la pregnanza del voto nella storia della scuola. Le trasformazioni culturali e pedagogiche richiedono tempo, formazione, esperienze, sperimentazioni, nonché un terreno sociale e politico adeguato.
Ma ecco che un emendamento del governo, nel DDL S. 924-bis dell’8 febbraio 2024, in discussione al Senato, vuole che dal prossimo anno la valutazione delle alunne e degli alunni della scuola primaria sia espressa con giudizi sintetici anziché con giudizi descrittivi. Quali sono le analisi, i presupposti pedagogici a sostegno della proposta? Possiamo accettare che una nuova riforma si poggi su un’ idea sommaria di famiglie in confusione e di complicazione del lavoro dei docenti?
Immaginiamo una linea del tempo della storia della valutazione ed ecco che dal 2024 la freccia va indietro al 1996, cancellando con un emendamento l’impegno di decine di migliaia di insegnanti che si sono formati, hanno studiato, sperimentato in classe e spiegato ai genitori le nuove prassi valutative. Insegnanti che hanno creduto che il loro operato professionale fosse anche teso a monitorare punti di forza e di criticità di questa riforma. Ci sono invece tutti i presupposti, come in un copione già letto e vissuto, che la freccia della linea del tempo possa proseguire nella direzione del passato fino al 2008 o, se si vuole, fino alle origini della Scuola italiana, per segnare il ritorno al voto.
Bruna Sferra Esecutivo COBAS Scuola di Roma e provincia