Basta soffermarsi sui dati del Ministero della Giustizia “Detenuti per titolo di studio”, per avere un quadro abbastanza rispondente dell’ambito sociale di provenienza dei detenuti presenti nelle nostre carceri. I numeri e le percentuali sui detenuti per titolo di studio ci dicono, infatti, che al 30 giugno 2023, nei 189 istituti penitenziari italiani, erano presenti 57.525 detenuti e di questi il 4,5% risulta analfabeta o privo di titolo di studio (2,8% analfabeti, 1,7% privo di titolo di studio) e il 16,5% in possesso solo della “vecchia” licenza elementare. Dunque possiamo affermare che il 21% della popolazione detenuta è scarsamente alfabetizzata e che – se a questo aggiungiamo un altro 58,1% (17.159 persone) che ha la sola licenza media, dunque non ha concluso neppure il percorso dell’obbligo scolastico che termina con il primo biennio delle scuole superiori- il 78% della popolazione detenuta è scarsamente alfabetizzata e scarsamente istruita, infatti solo il 16,6% ha un diploma di scuola superiore e il 2% possiede una laurea (in tale contesto i detenuti italiani presenti in carcere sono 39.538, corrispondenti al 68,7% del totale; i detenuti stranieri 17.987, corrispondenti al 31,3%).
Nonostante l’importanza rivestita dai dati dello stesso Ministero, l’erogazione e la partecipazione ai corsi scolastici varia molto a seconda dell’istituto penitenziario, così i corsi scolastici erogati nel precedente anno scolastico, sono stati 1.735 per un totale di 17.324 persone iscritte (di cui 7.550 stranieri). Il numero di persone straniere iscritte a corsi di istruzione si concentra, poi, soprattutto nel primo livello (5.941 detenuti stranieri). Tra costoro, 3.521 risultano iscritti a corsi di alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana, con una percentuale decisamente più elevata rispetto al totale della popolazione detenuta iscritta a tale percorso didattico, pari a 3.860 unità. Le motivazioni principali sono collegate alla necessità di apprendere la lingua o al mancato riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero. Antigone (associazione per le garanzie nel sistema penale, fondata negli anni Ottanta) in una propria indagine riporta che sui 65 istituti visitati, soltanto in 7 più della metà dei detenuti era iscritto a un corso di istruzione. In altri 15 istituti erano fra il 30% e il 50% i detenuti iscritti a un corso di istruzione. Troviamo poi 29 istituti con il 10-20% di detenuti studenti e 14 con meno del 10% di studenti.
Di fronte a tali percentuali e ai dolorosi avvenimenti che hanno funestato il carcere durante questa estate: sovraffollamento, caldo, suicidi, diritti calpestati, problematiche psichiatriche, la risposta del governo è stata quella della scelta sanzionatoria e repressiva, indipendentemente dalla fascia di età di appartenenza.
Ora, visto che il governo non sembra ascoltare quanto in questi giorni si sta scrivendo rispetto a tale deriva reazionaria, forse perché interpreta quanto si dice come dettato da un’opposizione politica minoritaria e rancorosa, possiamo suggerire ai ministri della maggioranza di rileggere un classico che abbiamo letto tutti/e, I Promessi Sposi, per riscoprire la sapiente ironia con la quale Manzoni descrive la roboante e barocca giustizia borbonica attraverso la serie interminabile di “gride” con le quali si minacciavano tutti i malviventi che osavano mettersi al servizio di qualche signorotto e commettevano omicidi, furti e delitti vari, con pene severissime tanto che a leggere quelle parole, ci dice Manzoni, “viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre”, mentre invece, nonostante il susseguirsi delle gride per oltre sessant’anni (la prima grida è del 1583, l’ultima grida che Manzoni cita è del 1632, emanata, perciò, un anno prima dell’inizio della storia degli sposi promessi), noi lettori veniamo messi sull’avviso dalla voce narrante […] che, nel tempo di cui noi trattiamo, c’era de’ bravi tuttavia” ovvero che a nulla erano serviti quei sessant’anni di gride lanciate e rilanciate, perché i bravi (e i loro protettori) continuavano ad agire indisturbati. Sarebbe bastato rileggere Manzoni, un campione del nostro Made in Italy, per evitare al governo Meloni e ai suoi ministri di scambiare lucciole per lanterne, vendetta per giustizia e capire, invece, la dolorosa realtà che emerge dai territori italiani, tra i giovanissimi, ma non solo, rispetto alla quale a poco serve l’inasprimento delle pene, perché questo non distoglie dal reato e pensare di risolvere il problema con “gride” più dure, non serve a nulla. Come ha detto un preside di Caivano, infatti, non c’è bisogno di polizia ma di normalità, cioè di scuola, tempo pieno, mense, sport, illuminazione stradale, sanità diffusa (e, aggiungiamo noi, non solo a Caivano), cercando di lavorare per comprendere quali sono le radici di fenomeni tanto complessi quanto antichi. La maggior parte dei reati coinvolge giovani e meno giovani che hanno famiglie fragili, vivono in contesti degradati, hanno abbandonano precocemente la scuola divenendo bassa manovalanza della criminalità organizzata, anche se le forme di povertà educativa sono sfaccettate e non sempre riconducibili a fattori esclusivamente economici, come dimostra la trasversalità di alcune tipologie di reato che toccano fasce sociali diverse (in particolare gli stupri, di gruppo o meno che siano). La mancata centralità dell’istruzione e le scarse conoscenze di base possono determinare quelle disuguaglianze iniziali che nel corso della vita creano debolezze che si incistano nella vita sociale del singolo e riproducono e ampliano le disuguaglianze iniziali, spesso causate dall’assenza di adeguate iniziative educative rivolte ai giovani, ma anche agli adulti.
Non è sorvegliando e punendo, o diramando nuove “gride” per impaurire e rinchiudere i “bravi” del nostro secolo, che un governo fa giustizia, ma creando opportunità sui territori e, in carcere, attuando un recupero socio-educativo che eviti di far uscire giovani e adulti dalle patrie galere più motivati a commettere atti criminosi che a riprendere il filo di proficue relazioni sociali, interrottesi con l’ingresso in carcere.
Anna Grazia Stammati Esecutivo nazionale COBAS Scuola