Il 2024 sembra essere iniziato, in carcere, sotto i peggiori auspici, con un andamento molto vicino all’annus horribilis, ovvero il 2022, caratterizzatosi per l’alto numero di suicidi tra la popolazione detenuta (circa 87 in un solo anno). Al 25 gennaio, infatti, sono 29 i morti nelle carceri italiane, di cui ben 11 per suicidio, mentre, proprio in questi stessi giorni, l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per aver violato il divieto di tortura e trattamento inumano o degradante (articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), in quanto non ha garantito le cure mediche necessarie a un detenuto, pur avendo stabilito che la prigione era compatibile con il suo stato di salute.
La stampa, nazionale e locale, in continuità con l’anno precedente, riporta quotidianamente inchieste, dati, esperienze, posizioni, articoli, interviste a personalità autorevoli, che descrivono la realtà del carcere come un luogo infernale (dove a volte accadono anche buone cose, ma solo a volte) e di fronte a tale situazione emergenziale, da un lato si punta all’inasprimento delle pene e alla moltiplicazione dei reati per i cosiddetti crimini da allarme sociale, con le carceri che continuano a riempirsi (sono poco meno di 61.000 i detenuti, stipati in 47.540 posti, con un affollamento del 127% che in molti istituti – 103 su 189- raggiunge il 150%). Dall’altro lato, la maggior parte delle forze politiche richiede misure alternative alla detenzione, depenalizzazioni, indulti, decreti, nel giusto tentativo di sfollare le carceri, ma senza proporre, nel frattempo, cosa fare dentro le carceri, stracolme e inadeguate (anche negli istituti più “attrezzati”, non si riesce a fare tutto ciò che si dovrebbe, perché mancano direttori, educatori, magistrati di sorveglianza, assistenti sociali, docenti, agenti, personale amministrativo), per garantire a tutti i “ristretti” attività che permettano risocializzazione e ricollocamento al lavoro.
Nell’annuale Relazione al Parlamento del dicembre scorso, il Garante nazionale delle persone private della libertà personale (Mauro Palma, ora sostituito dal nuovo Garante nazionale Felice D’Ettorre), ha fornito una precisa indicazione sull’area della sua azione in ambito penale, affermando che istruzione e formazione costituiscono “il primo intervento ‘trattamentale’. Perché sono queste a costituire il sostegno della consapevolezza che è preliminare all’assunzione della responsabilità – anche di ciò che si è commesso.” Tale sostegno è previsto, normato e sostenuto anche da protocolli stipulati tra Ministero dell’Istruzione e Ministero della Giustizia che dovrebbero darvi sostanza, ma la reale fruibilità dei percorsi di istruzione e formazione riguarda una esigua platea di “ristretti”, se si pensa che meno di un terzo della popolazione detenuta usufruisce dei corsi di istruzione.
Le due istituzioni implicate nella determinazione di spazi e attività (Ministero della Giustizia e Ministero Istruzione, a cui il CESP e la Rete delle scuole ristrette da sempre hanno affiancato anche il Ministero dei Beni culturali), pur nei tentativi posti in essere, rimangono lontane da un intervento complessivo e soddisfacente per rispondere all’obbligo di fornire un trattamento adeguato ai detenuti. E pensare che al Ministero dell’Istruzione basterebbe aprire un Tavolo di confronto e fare il punto della situazione, come previsto persino dalla Legge 107/2015: “Decorso un triennio dal completo avvio del nuovo sistema di istruzione degli adulti e sulla base degli esiti del monitoraggio, possono essere apportate modifiche al predetto regolamento (art 1, comma 23) e che, al Ministero della Giustizia, basterebbe proseguire nell’attuazione di quanto scritto nei protocolli di intesa tra le parti e dar seguito alle Circolari e alle Linee di intervento già stabilite.
Considerando il 2016, come l’anno di entrata a regime della Nuova istruzione Adulti, pur tenendo conto del COVID e della sospensione delle attività di istruzione, possiamo dire di essere oramai ampiamente fuori tempo, oltre che fuori norma, e che le strutturali carenze di personale e i mancati interventi a sostegno delle attività trattamentali, stanno creando un pericoloso corto circuito, in cui all’inerzia dei precedenti governi va sommandosi la deriva securitaria di questo governo, lasciando al degrado cui sono costretti i detenuti e all’autolesionismo, la risoluzione del problema, come dimostrano le statistiche relative alla percentuale dei suicidi in carcere rispetto a quelli che avvengono fuori. Mentre, infatti, nei paesi scandinavi la percentuale dei suicidi tra la popolazione libera appare più elevata rispetto alla popolazione detenuta, in Italia, al contrario, è percentualmente più elevato il numero di suicidi in carcere, rispetto a quelli della popolazione libera, a conferma che trattamenti più umani incidono nettamente, e in meglio, sulla vita e la riabilitazione dei detenuti.
Nella lunga e complessa attività svolta in questi anni dal CESP e dalla Rete, al centro degli interventi per il riconoscimento della centralità di istruzione e cultura nell’esecuzione penale, sono stati posti quelli a sostegno delle attività didattiche, le quali, pur essendo le uniche a fornire continuità e a imprimere una diversa gestione dei tempi e degli spazi propri del carcere (e per questo entrando spesso in conflitto con la rigidità nella scansione degli stessi), ciononostante rimangono “al di qua” dei veri bisogni della popolazione detenuta, non riuscendo ad incidere veramente, né sul percorso trattamentale intrapreso dai detenuti, né sulla loro ricollocazione nella società. Con la caparbietà che ha contraddistinto i docenti e i dirigenti della Rete, tali interventi sono stati posti all’attenzione del Ministero della Giustizia che ha accolto molte delle istanze dei docenti, inserendo nel Programma nazionale di innovazione sociale dei servizi di esecuzione penale: legalità, cultura, sviluppo e coesione sociale, la realizzazione di progettualità, quali Biblioteche innovative in carcere (progetto presentato dal CESP e dalla Rete in partenariato con l’Università Roma Tre e svolto per sette anni a Rebibbia Nuovo Complesso), collegate in rete con le altre biblioteche del territorio, delle Scuole e delle Università degli Studi, strutturate in modo da diventare dei veri e propri poli culturali, oltre che di sviluppo di nuove professionalità; di Laboratori innovativi per la formazione professionale e per le attività lavorative e ricreative (nei diversi settori: sostenibilità ambientale, information & communication technology, etc.); per lo sviluppo delle Attività teatrali e delle Arti e dei mestieri, delle Attività sportive e delle professionalità correlate allo sport.
Nonostante ciò e la necessità di attivare tali progettualità, già collaudate in molti istituti e gestite direttamente da questi e nonostante il coinvolgimento di sessanta docenti inseriti in altrettanti istituti penitenziari, la disponibilità di vari Dirigenti di scuole di primo e secondo livello e alcuni milioni di euro messi a disposizione degli istituti penitenziari per la realizzazione di attività trattamentali qualificate e attestate, a diciotto mesi di distanza si sono riusciti a realizzare pochissimi delle previste attività.
Motivazioni? Le solite: mancanza di personale per la sorveglianza, difficoltà nella gestione di conti correnti che le direzioni devono aprire per ogni progettualità attivata, complicazioni nelle rendicontazioni dei fondi da parte dell’area amministrativa, impossibilità da parte dell’area educativa nel seguire i lavori progettuali oltre il già gravoso e complesso lavoro quotidiano.
Dunque non mancano le norme, né le progettualità, già definite dalla programmazione della amministrazione penitenziaria (dunque non una semplice carrellata di fantasiose proposte progettuali e attività, come spesso avviene), ma vengono meno le possibilità di porle in essere, il che rende la finalità rieducativa, che è il vero obiettivo dell’esecuzione penale, una enunciazione di principio che non riesce ad avere seguito, e rende le norme un insieme di inutili e vane parole proprio agli occhi di chi sta intraprendendo la strada della “rieducazione”, attraverso la quale dovrebbe riacquisire il senso e il valore delle norme e del loro rispetto.
Come abbiamo affermato in conclusione della nostra partecipazione al Festival Dei Due Mondi di Spoleto nel luglio scorso, per cercare di migliorare la vivibilità del carcere (senza nulla togliere a programmi di “sfollamento” dei penitenziari) non occorre aspettare norme che già ci sono, ma farle rispettare e, per riuscire nell’intento una volta per tutte e senza inutili attese, occorre partire da reti territoriali interistituzionali, per una presa in carico collettiva del carcere che rappresenta una realtà territoriale concreta, che va considerato come il pezzo di un quartiere delle città, per restituire il senso di una responsabilità comune nella gestione di un luogo che non può essere visto come semplice punto di arrivo di vite non omologate.
Il CESP e la Rete, con il seminario svolto ad Alessandria il 1° dicembre scorso “Istruzione e cultura in carcere: La Rete delle scuole ristrette: Teatro e Biblioteche nei circuiti penitenziari” hanno iniziato a percorrere tale strada e accanto a docenti, dirigenti, direttori, educatori, hanno coinvolto gli attori istituzionali della città (sindaco, assessori, consulenti di Alessandria Incoming), con l’obiettivo di realizzare, a partire dal coinvolgimento di una molteplicità di forze sociali, quell’inclusione dei soggetti “ristretti”, che potrà poi acquisire nuova forza in un progetto di inclusione di livello nazionale.
Anna Grazia Stammati