I dati sui livelli di istruzione collocano l’Italia agli ultimi posti in Europa, sia per il conseguimento di un titolo di scuola superiore, sia come numero di laureati: il 12,7% dei giovani italiani tra i 18 e i 24 anni non ha conseguito né un diploma di scuola superiore né una qualifica professionale, mentre nel resto d’Europa la media é del 9,7% (Eurostat 2021), mentre come numero di laureati nella popolazione tra i 16 e i 64 anni l’Italia si attesta al 17,9% , mentre la media UE è del 30%, con una delle quote più elevate per interruzione degli studi dopo la scuola media (39,2% in Italia; 25% media UE). In tale contesto, assume un ruolo importante la trasmissibilità familiare, sia perché spesso i fallimenti dei genitori disincentivano gli studi, sia perché precarietà e deprivazione comportano un precoce abbandono della scuola per contribuire al bilancio familiare (Borga-Struffolino 2022). Anche a voler considerare, come alcuni analisti sostengono (Barone 2013), che non sia necessario avere una popolazione di laureati, l’Italia rimane, comunque, agli ultimi posti anche come numero di diplomati. Molteplici sono le ragioni storiche del divario educativo italiano rispetto al resto d’Europa, dai ritardi nella formazione dello Stato a quelli relativi al raggiungimento di una vera unità linguistica nel nostro paese; dalla mancata diffusione capillare del sistema di istruzione alla modernizzazione incompiuta e al divario ancora esistente tra Nord e Sud; dal “fallimento” del fascismo nella creazione di una cultura per le classi popolari alla mancata inclusione culturale dei ceti emarginati, determinato da un predominio culturale e conservatore della Chiesa e della DC, e dall’influenza minima del PCI nel favorire lo scambio tra gli intellettuali comunisti e i ceti popolari, con l’emergere di una visione elitaria della cultura (Giancola-Salmieri, 2023). Solo con molto le forze della sinistra fecero importanti riforme come quella della scuola media unica nel 1962, una vera svolta nel nostro sistema di istruzione che però darà i suoi frutti pienamente solo negli anni Ottanta e se tra gli anni Settanta e Novanta ci fu un’impennata nelle iscrizioni all’università, gli anni 2000 sono stati contrassegnati da un tasso di abbandono che coinvolge studenti appartenenti ai ceti sociali meno abbienti, il che chiarisce la scarsa mobilità ascendente dei titoli di studio. L’insieme di tali ragioni rende evidente che la povertà educativa non può essere addossata alla scuola e al suo presunto “lassismo e buonismo”, o alla qualità scadente dell’insegnamento o alla mancata meritocrazia determinata da una “pedagogia democratica” che aumenterebbe le disuguaglianze, perché sono invece le disparità sociali a riprodurre quelle scolastiche e per rimuovere queste ultime la scuola deve essere inclusiva e non selettiva, cercando, per quanto possibile, di unire a questo un buon livello di insegnamento e apprendimento. Addossare alla scuola la povertà educativa significa non guardare all’evoluzione positiva della scuola in Italia, dalla affermazione della Repubblica ad oggi, ai suoi meriti sia per l’espansione sui territori, sia per l’inclusione di una popolazione studentesca diversificata, sia per la differenziazione dell’offerta formativa: e vuol dire riproporre una visione nostalgica della scuola del passato, vista come “seria e selettiva”. Ciò che determina, oggi, la diffusa povertà educativa (così come dimostrato dallo studio di Giancola-Salmieri), è imputabile soprattutto ai fattori extrascolastici: background familiare, disuguaglianze sociali, differenze di genere, contesti sociali ed economici.
Dunque, per combattere efficacemente la povertà educativa, sono fondamentali politiche di contrasto alla povertà economica dei nuclei familiari (la povertà educativa non è esclusiva della popolazione in età scolare, ma riguarda anche la popolazione adulta, con enormi ricadute sulla prima), con servizi pubblici per la primissima infanzia per ridurre le disuguaglianze iniziali e il loro effetto negativo sulle future opportunità; l’estensione del tempo pieno e del tempo scuola; l’innalzamento dell’obbligo scolastico sino ai 18 anni spostando la formazione e l’istruzione professionale in aggiunta e non in sostituzione dell’istruzione superiore; una revisione del sistema di istruzione che mitighi le differenze tra licei e istituti tecnico-professionali; investimenti per gli studenti diplomati, con borse di studio e alloggi universitari; investimenti per impedire il decadimento culturale degli adulti che altrimenti riproducono e trasmettono povertà educativa. L’istituzione dei Centri di istruzione provinciale per gli Adulti (CPIA), nel 2015, pur con la presenza di un organico docente dedicato alle attività di istruzione, si è rivolta quasi esclusivamente agli adulti di origine straniera (anche per i limiti dei finanziamenti che ne impediscono l’estensione agli adulti italiani con scarsa scolarizzazione) ed ha assunto un aspetto localistico, mentre occorre un intervento uniforme per sostenere gli adulti privi di titoli di studio o di conoscenze adeguati, e rafforzarne conoscenze e abilità di base. L’investimento richiesto sarebbe un investimento sociale con rilevante ritorno economico per la crescita occupazionale e le minori uscite finanziarie per le conseguenze che comporta, come è sotto gli occhi di tutti, una povertà economica ed educativa così fortemente diffusa nel nostro paese.
Anna Grazia Stammati